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DUE DONNE PER SALVARE UN UOMO
Il sincronismo eroico di Addolorata Sardella e di Lucia Corposanto, quel dodici Settembre 1943

Con molta onestà e con l’umiltà di quanti, seriamente, vogliono dipanare l’intreccio ingrovigliato dei ricordi, personali e collettivi, per una corretta ricostruzione storica degli avvenimenti consumatisi in casa nostra, a Barletta, in quel tragico e terribile settembre del ’43, è doveroso riconoscere a Mons. Giuseppe D’Amato, il merito di aver raccolto numerose testimonianze. Fattane la necessaria tara di rindondanti e sovrabbondanti cifre dettate dalla naturale tendenza al protagonismo nelle “versioni” delle testimonianze personali, sia in coloro che le rilasciano che in quanti le registrano, le “dichiarazioni” assemblate da Don Peppuccio, restano uno strumento prezioso per una responsabile analisi dei fatti, delle circostanze e del comportamento delle persone, molto vicina alla “verità” più che non al rispetto, spesso semplicemente ossequioso, per  “l’oggettività” del racconto della storia.
“Noi Vigili urbani ai colpi di cannone e mitragliamento per l’entrata dei Tedeschi in Città, e già si appressavano al Monumento dei Caduti, ci eravamo rinchiusi nel nostro Ufficio (…) tenendo chiuso l’ingresso in Via De Nittis, ma aperto, con la semplice vetrina chiusa, quello in Via Vecchia Cappuccini, n. 2”.  Inizia così la dichiarazione del vigile Francesco Paolo Falconetti, il sopravvissuto all’eccidio dei dieci suoi colleghi e di due netturbini, quella mattina della domenica 12 Settembre 1943, grazie al coraggioso intervento di Addolorata Sardella e di Lucia Corposanto.
Una misura cautelativa, quella adottata dai vigili che, oltre a chiudere e socchiudere le porte di accesso alla propria sede, “frattanto avevano deposto e nascosto le rivoltelle come era stato ordinato dal nostro Maresciallo Capuano Francesco, per evitare una qualsiasi rappresaglia”. Non valse a nulla. I tedeschi entrarono, perquisirono quegli uomini, li obbligarono ad uscire in fila indiana, uno dietro l’altro con le mani alla nuca e l’ordine perentorio di quel soldatino, forse, che, nella foto, li tiene sotto il tiro della pistola, quell’esse esse nazista che “ci fece avviare verso il Monumento dei Caduti, dove ci fermammo”.
Quanto sapore dantesco in quel “ci fermammo”.
In quella piazza “completamente sgombra di civili: erano solo presenti un 100 Tedeschi, sparsi agli sbocchi di accesso”, in quella piazza deserta, si fermò per sempre il battito del cuore di un gruppo di uomini, convenuti in quel luogo per garantire sicurezza ai propri concittadini, obbedendo all’obbligo della loro coscienza e della loro deontologia professionale che li voleva lì, in quel luogo, a quell’ora, a prestare il loro servizio alla comunità civica.
In un fazzoletto di pochi metri quadrati compresi tra la via De Nittis, la Via Vecchia Cappuccini, oggi via Renato Coletta, e la Piazza Caduti in guerra, nel giro di poche ore, si incrociarono vite e destini di uomini e di donne, ognuno con la propria storia personale, in uno scenario terrificante di spari, di grida, di ordini tassativi, di implorazioni respinte, di esecutività obbedienti, repentine ed immediate, di spargimento di sangue innocente, di lugubre silenzio della morte.
Si incrociarono lì, gli sguardi smarriti, increduli, gli occhi bagnati di lacrime degli undici vigili urbani e dei due netturbini, vittime assurde dell’ottusa violenza della guerra, con gli occhi assetati di vendetta dei loro feroci aggressori, forti di una futile arroganza di superiorità umana, iniettata in loro da una propaganda razziale di stato, vuota di ogni pur minima ragione scientifica che la giustificasse. Si incrociarono lì le storie personali di due donne accomunate, in quel momento, da vissuti psicologici terrificanti: Addolorata Sardella, sconvolta per aver assistito all’uccisione di quattro soldati presso il rifugio n. 1 della stazione, che corre verso la casa della mamma per sincerarsi delle condizioni dell’intera sua famiglia e Lucia Corposanto, rinchiusasi tremante, terrorizzata “agli spari e colpi di mitra per lo spavento” nel portone dei fratelli Picardi al n. 7  di Via Giuseppe De Nittis, contiguo all’uscio della caserma dei vigili urbani.
Da quell’osservatorio non scelto, anzi  obbligato per sottrarsi a possibili e probabili colpi mortali, Lucia, in apprensione per l’intera famiglia che aveva lasciato a casa, in via Brigata Barletta, per recarsi a Messa nella Basilica del Santo Sepolcro, nota, “dallo spiraglio del portone un gruppo di Tedeschi presso il Monumento dei Caduti, notai i Vigili Urbani che dal loro ufficio di Via Vecchia Cappuccini n. 2 e da tre Tedeschi condotti al Monumento, e notai pur anche il mitragliamento dei Vigili Urbani a ridosso del Palazzo delle Poste”. Con questi fotogrammi tremendi negli occhi, con il cuore in subbuglio e sbattuto per i mille pensieri carichi di ansia e angoscia per la famiglia lasciata in casa, sia pure a pochi passi dal suo occasionale rifugio, Lucia Corposanto, stenta ad uscire, a tragedia consumata, nonostante non avverta più l’orrore delle grida degli uomini e il crepitio delle armi. Sembra finanche convinta che i tedeschi, dopo il mitragliamento, siano andati via. Anzi ne ha certezza: “difatti fuori era tutto silenzio”. Eppure si dichiara “titubante e pensosa” sino a che non ode “una voce straziante di donna: Madonna che orrore, poveri figli!”. Scatta, allora in lei, quell’insana follia, quella rapida decisione non calcolata, di gettarsi sulla scena di quella tragica esecuzione che aveva seguito dallo spiraglio del portone. E, immediatamente, “…animata da forza sovrumana uscii risoluta  dal portone, vidi giacenti a terra il groviglio dei Vigili urbani, la donna, di cui avevo sentito il grido lacerante e da me riconosciuta per Addolorata Sardella (…) ed ancora più animata mi affiancai a lei”. Più con i gesti che non solo con le parole, Addolorata Sardella, le dice che c’è un uomo vivo, un uomo che muove la mano, un uomo sotto quel mucchio di cadaveri insanguinati e riversi sul marciapiedi… “(…) unite ci avvicinammo ai mitragliati (…) con animo risoluto tirammo fuori il ferito, il Vigile Falconetti Francesco Paolo, e lo trascinammo nel cortile”.
 Si incrociarono lì, allora, le mani pietose delle due soccorritrici, Addolorata Sardella e Lucia Corposanto, con i corpi freddi e dissanguati dei più e con la mano tremante e il corpo allo stremo delle forze di Francesco Paolo Falconetti. Si incrociarono lì, la barbarie della sopraffazione dell’uomo sull’uomo e il coraggioso ed impetuoso amore di quell’intervento di salvezza delle due donne, dell’uomo per l’uomo, non importa affatto chi sia, che trova esaltazione e paradigma di riferimento nell’episodio evangelico del Buon Samaritano.
“Tutta spaventata e con la mia veste tutta macchiata di sangue, ritornai a casa”. Il suo compito, istintivo più che riflesso e razionale, era concluso. Da spettatrice inerte, impaurita e impotente, di una mattanza anomala, Lucia Corposanto, si era ritrovata operatrice di salvezza, in perfetta sincronia di tempi, di modalità, di azioni, di pensieri e di affetti, con un’altra donna, Addolorata Sardella.
L’uomo strappato alla morte, Francesco Paolo Falconetti, trascinato con la forza della disperazione dalle due donne, era salvo nell’androne della casa materna della Sardella. Nel trambusto dell’accorrere  del vicinato per apprestargli le cure di pronto soccorso, Lucia Corposanto, esce di scena. Scompare. Torna a casa, tutta sporca di sangue, sangue umano, a riprendersi la sua storia naturale di donna e di madre, in una domenica del Settembre ’43 che doveva iniziare con la partecipazione alla Santa Messa delle ore 8, in San Sepolcro, e si avviò, invece, con il coinvolgimento di Lucia, come protagonista, in una serie di tragici avvenimenti, imprevisti, di una storia governata da uomini accecati da mire di grandezza e di potenza.
“Tanto per la verità e la storia”, come direbbe certamente oggi, Don Peppuccio, se fosse ancora in vita, considerare il ruolo della Corposanto, in questa storia di eroismo femminile, un ruolo gregario e di supporto al ruolo principale, riconosciuto e onorato di recente con una Medaglia di bronzo, di Addolorata Sardella, sarebbe far torto alla Memoria prima ancora che alla verità storica. E, la Memoria, è memoria di tutto. Non tollera parzialità, la Memoria.


(luglio 2007) Luigi Di Cuonzo
Responsabile dell’Archivio

della Resistenza e della Memoria

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