TRISTIS ET ADFLICTA MATER
CONSIDERAZIONI SUL GRUPPO SCULTOREO DELLA “DESOLATA” DI CERIGNOLA
Il gruppo scultoreo della Desolata fu realizzato
verosimilmente da una bottega di
scultori napoletani nel Settecento. Esso si innalza
su un basamento in legno fogliettato in oro,
e costituisce una importante testimonianza di
un modello iconografico influenzato da proficui
scambi culturali ed artistici tra Italia meridionale
e Spagna, a partire dal periodo dei Vicerè e dal
loro soggiorno a Napoli, e dal ruolo delle Confraternite.
Il soggetto rappresentato è quello della
Pietà, secondo lo schema che si affermò nell’Europa centrale alla fine del XIV secolo,
traendo la sua origine dall’Oriente attraverso
i pellegrinaggi e gli Ordini cavallereschi e monastici.
Questo tema drammatico si sviluppò soprattutto
Oltralpe. In Germania fu chiamato Vesperbild
(in quanto nel breviario la deposizione è celebrata al vespro), in Francia La Vierge de
pitié e in Italia La pietà, perché influenzati dalla
Pietà di Michelangelo in San Pietro in Vaticano.
Quest’icona ha come protagonista la Vergine
addolorata vestita in nero, con il calibrato
abbandono del corpo nudo di Cristo morto,
che rievoca il dolore della Madonna dopo la
deposizione di Gesù dalla croce.
L’intervento di restauro è stato promosso
nel 2013 dal vescovo della Diocesi, S. E.
Mons. Felice di Molfetta, e dal Vicario Generale,
Mons. Carmine Ladogana, all’epoca amministratore
della Parrocchia San Francesco
d’Assisi (Chiesa Madre).
Il restauro, effettuato da Cosimo Cilli e
finanziato dalla Confraternita del SS. Sacramento
di Cerignola, è stato ultimato nel 2014
con il rifacimento degli abiti, curato da Franco
Dambra, sotto il parrocato di Don Giuseppe
Gaeta.
Questo prezioso simulacro, collocato originariamente
nella chiesa di Sant’Agostino,
ancora oggi sede della Confraternita del SS.
Sacramento, fu recentemente trasferito nella
Chiesa Madre.
L’alto significato spirituale del gruppo
della Desolata rivela un intenso e composto
pathos. L’impianto stilistico piramidale, di richiamo
michelangiolesco, sembra prendere
le mosse dal gruppo ligneo della Pietà della
Collegiata di Eboli di Giacomo Colombo, del
1704. Il nodo drammatico del legame fra la
Vergine Addolorata e il Cristo morto è manifestato
dallo sguardo della Madre segnato da un dolore sostenuto, ma soprattutto interiore,
senza smorfie esasperate, e dal suo chinarsi
sull’immagine centrale del corpo del Cristo
morto, adagiato ai piedi di Maria, dal cui volto
traspare un dolore quasi di rassegnazione.
Con la mano sinistra Ella sostiene il fazzoletto
che asciuga il pianto, mentre con l’altra mostra
il corpo disteso ai suoi piedi, con effetto di
grande suggestione. Secondo il parere del restauratore,
la sostituzione dell’elemento originale
del Cristo morto, probabilmente distrutto
a causa di un incendio, con l’attuale in cartapesta
risalente al XIX secolo, trova sostegno
nella diversa fattura dei manufatti del gruppo.
Il restauro ha fatto emergere dal Cristo
morto l’impatto emotivo e dirompente dei suoi
lividi incarnati e delle colature del sangue,
conferendo alla scena un forte senso di drammaticità,
con il capo abbandonato e piegato
sulla spalla sinistra.
La Vergine Addolorata racconta il dramma
di una madre che riceve il figlio morto tra le
braccia. Essa è una settecentesca figura lignea
a “manichino”, con testa, mani e piedi in legno,
con gli occhi vitrei, rivestita con un lungo abito
nero e un’ampia gonna, molto stretta in vita, in
armonia con una camicia girocollo dalle maniche
lunghe e strette molto arricciate
sull’avambraccio, con merletto in organza
leggero ai polsi e al girocollo.
Su un ricco corpetto attillato, ricamato
nero su nero, foglie di palma evocano
il martirio. Sul corpetto poggia un
cuore d’argento e oro, trafitto da uno
stiletto in argento.
Un ampio manto nero con al
bordo profili di colore argento copre
l’intera figura della Vergine, che ha
sul capo un’aureola. Ella è seduta
su una roccia che rappresenta la
collina del Golgota, dove alle spalle
di Maria è issata la croce, dal cui
braccio trasversale pende il lenzuolo
bianco detto sindone.
Al gruppo centrale, costituito da
Maria e dal Cristo morto, è affiancata
l’elegante figura dell’angelo consolatore,
anch’esso un “manichino” da vestire, con ali spiegate e rivolte
verso l’osservatore. Egli, col braccio
destro posato sulla spalla della Vergine,
la conforta nel suo dolore.
L’angelo indossa due tuniche e
un corpetto o dalmatica, dai colori avorio, rosa
pastello e cipria, dei fiori di primavera, al fine
di evocare la risurrezione. Una stola che gli attraversa
il petto reca ricamata una frase tratta
dallo Stabat Mater: “O QUAM TRISTIS ET AFFLICTA
MATER UNIGENITI” (“O quanto triste
e afflitta la Madre dell’Unigenito”).
Sono anche presenti due putti in legno che
sorreggono i simboli dell’avvenuta crocifissione:
uno reca la corona di spine, l’altro il cartiglio
con il Titulus Crucis (“il titolo della croce”)
INRI, e ai piedi i chiodi. Essi costituiscono una
quinta scenica dell’intera composizione, con
effetto di chiusura verso l’esterno.
L’intera composizione è un’opera altamente
densa di significati, che invita ad una profonda
meditazione religiosa. Essa rientra nel filone
pietistico-popolare della religiosità partenopea,
e presenta grande equilibrio nella distribuzione
dei volumi, che rievocano i più celebri esempi
della tradizione figurativa del tardomanierismo
della Spagna e dell’Italia centro-meridionale,
lasciandosi influenzare dalla scultura lignea napoletana
del XVI secolo, e aderendo ai modelli
iconografici della controriforma, con un’intonazione
dolcemente patetica.
Angelo Disanto
Storico e antropologo
(aprile 2015)
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