L’ARRIVO DI VECCHI
A BARLETTA
Precursore dei tempi moderni, impostò a Barletta e realizzerà a
Trani i grandi obiettivi del suo progetto editoriale: dare voce alla
cultura pugliese
Come cominciò la sua avventura barlettana?
Affidiamone il racconto a lui stesso, in una rara pagina autobiografica
che abbiamo
preso da un numero unico di Pietas (l’organo di stampa della
Croce Rossa Italiana) del 1892.
Giovane d’anni [Vecchi aveva 28 anni quando scese alla stazione
di Barletta il 30 dicembre 1868], di florida salute e pieno di buon
volere, io sfidavo l’avvenire, e recandomi in una città ove
non avevo competitori nell’arte mia, mi sorrideva la speranza
di poterlo sfidare vittoriosamente.
Ma tratto tratto un senso di tristezza s’impossessava del mio
spirito e mi pareva soverchio ardimento l’aver lasciato una
modesta ma sicura posizione per andare incontro all’ignoto,
in una città lontana, ove forse mi aspettavano le più amare
delusioni. Ed è purtroppo vero che allora gl’Italiani
si conoscevano assai poco tra loro e non era raro il caso di trovare
nell’Italia Superiore, chi non sapeva dove fosse posta Barletta,
e viceversa nel Mezzogiorno chi ignorasse l’esistenza d’una
anche non piccola città centrale o settentrionale d’Italia.
In verità, io non ero in questa condizione. Il nome e l’importanza
storica e commerciale di Barletta non mi erano ignoti, e, appunto
per la sua importanza storica e per il suo nome glorioso, Barletta
mi attraeva, tanto che bastò il consiglio di un amico che
mi eccitava a portarvi la mia industria, perché io mi vi recassi
ad occhi chiusi, senza tanto pensarci su, ma in quelle ore della
notte, mentre il treno camminava e camminava, mi pareva che la lontananza
diventasse enormemente più grande di quella che realmente
era e l’abbandono dei luoghi della mia infanzia, della mia
prima giovinezza, e il ricordo dei parenti e degli amici che avevo
lasciato, e la solitudine in cui mi trovavo mi davano qualche momento
di vera e profonda malinconia.
Ma poi pensavo che, infine, malgrado la lontananza, io ero sempre
in terra italiana, e che in qualunque angolo uno si trovi della
propria Nazione può dirsi in casa propria, e mi allietavo e mi compiacevo
del fatto che da un decennio le barriere che dividevano Italiani
da Italiani erano infrante e la Patria era unificata e grande.
Erano le sette antimeridiane quando smontavo tutto solo alla stazione
di Barletta, stazione allora piccola e che, almeno nella mente
di chi l’aveva costruita, doveva essere di ben poca importanza.
Il tempo ha smentito questa credenza. Il cielo, questo splendido
cielo meridionale, era d’un grigio cupo quella mattina, e ciò accresceva
il mio malumore nostalgico. I cittadini erano ancora immersi nel
sonno, e quelle case senza tetto mi davano l’idea di una città distrutta.
Vicino alla stazione uno spiazzo di terreno erbifero, nel mezzo
una capanna, quasi diroccata, e poi lungo l’entrata principale
della città delle catapecchie. Dopo aver preso stanza ad un
albergo che si chiamava, se ben ricordo, ‘Parigi’, mi
diedi a visitare la città. La parte antica mi ricondusse col
pensiero ai tempi della Disfida, e la trovai quale me l’ero
immaginata, e quale l’avevo letta descritta nei libri. Anche
il popolino che si inginocchiava per strada la sera al suono dell’Avemaria,
era proprio ancora quello descritto da Massimo d’Azeglio, popolo
buono, rispettoso, sobrio quant’altro mai.
La parte moderna non presentava nulla di notevole, ma in quel che
c’era di notevole, il brutto predominava. Tranne due o tre
belle contrade, tutte le altre erano senza basolato e sporche,
e si camminava nel fango e nelle immondizie, rigagnoli di acqua,
che
non era di fontana, scorrevano per tutta la città, il che
non doveva giovare alla pubblica salute. L’illuminazione
era ancora ad olio, con quei fanali preistorici sporgenti agli
angoli
delle contrade, ed in piccolo numero, sicché la sera la
città era
tetra e pressoché al buio. Francamente tutto questo mi fece
una pessima impressione, e mi venne una gran voglia di ritornare
donde ero venuto.
* * *
Ma dopo un momentaneo moto di sconforto,
ripensando alla sua città natale
che s’era lasciato alle spalle, il Vecchi si riprese subito,
e già l’indomani incontrò il nostro studioso
e storico locale Francesco Saverio Vista. S’erano resi
liberi dei locali nell’ex convento di S. Domenico (che
agli inizi del Novecento ospiterà il Museo Civico) che
il nostro Valdemaro occuperà a titolo gratuito fino al
1880, quando decise di trasferirsi a Trani…
(dicembre
2006)