Mennea day
Acquafredda, Gambatesa e Damato. Le testimonianze dei tre staffettisti della 4x100
Quando lo vedevo prendere il testimone nella
corsia opposta, mi dicevo: “Ecco, abbiamo vinto”
Renato Russo che casualmente ha
saputo che anni fa ho corso con
Mennea mi ha chiesto di scrivere qualcosa
e di tratteggiare a grandi linee il carattere
facendo leva sui ricordi di quaranta anni
fa o magari raccontare qualche aneddoto
interessante di cui eravamo stati protagonisti.
Non racconterò episodi, non rivelerò fatti clamorosi perché i suoi tanti agiografi
improvvisati hanno già provveduto, fornendo
peraltro un’immagine di Mennea distorta
e spesso falsa. E questa non è la sede opportuna
per contestare nessuno o fare smentite
ufficiali. Pietro Mennea era un lavoratore
e una persona determinata. L’atletica era il
suo lavoro e lo faceva da grande professionista.
Ha mantenuto lo stesso atteggiamento,
la sua etica del lavoro coerentemente per
oltre quindici anni di carriera.
Mennea non era il ragazzo del Sud piccolo,
sgraziato, ossuto, che correva contro
le macchine per poche lire (cosa che secondo
me è una leggenda), o l’uomo che
ha usato l’atletica come strumento del suo
riscatto personale, o il paladino dell’orgoglio
meridionale che ha sfidato l’establishment
romano e torinese. Era soltanto un
ragazzo di famiglia, riservato, determinato,
orgoglioso, che ha fatto una carriera straordinaria
fino a diventare il più grande atleta
italiano di sempre. Il che dava fastidio a
molti. Riconosceva i suoi limiti, conosceva
i suoi mezzi meglio di qualunque altro.
Nessun tecnico gli ha insegnato nulla, male
correva all’inizio, male ha corso tutta la
vita, anche quando ha vinto le Olimpiadi.
Riconosceva però il sapere altrui, rispettava
gli avversari, ammirava quelli più forti.
La modestia dei veri campioni. Questo è il
suo merito più grande.
Certo la notorietà, i riflettori della cronaca,
l’esposizione mediatica si dice oggi,
oltre ad una tifoseria appiccicaticcia e rumorosa,
possono provocare atteggiamenti
risentiti, di chiusura, di diffidenza, come
quando Mennea parlava di sé in terza persona,
ma in definitiva era una difesa.
Non gli si perdonava di essere un recordman
mondiale. Tutti potevano esserlo
ma lui no. Gli altri paesi celebrano i propri
eroi con manifestazioni tangibili di gratitudine,
elevando gli atleti alle più alte cariche
dello sport come la Francia ha fatto
con Platini o l’Inghilterra con Sebastian
Coe, giustamente Lord Coe. L’Italia invece
ammazza i suoi miti spargendo intorno
a loro un aria di sospetto e di rancore.
Perché Mennea non è diventato Presidente
della Fidal o del Comitato Olimpico?
Perché non siamo stati rappresentati
a livello mondiale da chi lo sport lo ha
fatto e non visto in TV come per la maggior
parte dei Presidenti di Federazione?
Quanti sono in Italia i cittadini comuni
che conoscono Franco Arese o Giovanni
Malagò? Forse perche non aveva dalla
sua parte quei presidenti che preferivano
il calcio all’atletica, anche se è diventato
Parlamentare Europeo, ma era scomodo,
non le mandava a dire a nessuno e tutto
questo alla fine si paga. Sicuramente non
era nemmeno un uomo d’affari;
le sue imprese commerciali
non sono state da record. Però era un uomo generoso che ha
sempre pensato alla famiglia e
al suo benessere.
Polemico a volte ironico
mai arrogante. Non si è mai
tirato indietro anche nelle dispute.
Ricordo con chiarezza le
polemica Berruti/Mennea che
nonostante gli abbracci ad
uso dei giornali sportivi era
diventata aspra fino a toccare
punte di fastidioso razzismo.
Il figlio della borghesia Torinese
che corre con gli occhiali
da sole e che si impunta contro
l’anomino ragazzo meridionale
che ha vinto più di
lui e che è più apprezzato di
lui, che ha avuto un record del
mondo uguagliato che a lui
a Roma durò solo mezz’ora
come per Gentile al Messico.
Erano due mondi e due modi
di correre che si scontravano.
Berruti elegante, regolare, falcata leggera,
la grazia. Mennea era tutto l’opposto,
scomposto, ciondolante, ginocchia larghe,
ma terribilmente efficace.
Non sono stato d’accordo con chi ha
alimentato per anni l’iconografia dello stupore,
del miracolo del ragazzo morfologicamente “normale” che ha battuto tutta una
serie di bronzi di Riace. È da qui che è nata
quella ammirazione che sulle prime era
stupore ma poi è diventata invidia e maldicenza,
odio dichiarato. E non ho condiviso
entusiasmi sulla naturalezza selvatica dello
sprinter naturale. Pietro è nato veloce ma è diventato il più veloce con la disciplina,
il sacrificio, la fatica. Non ha rubato niente
a nessuno, nessuno gli ha regalato niente,
ma ha dato a tutti emozioni forti e ricordi
indimenticabili, soprattutto a me che quando
lo vedevo prendere il testimone sulla
corsia opposta mi dicevo “Ecco, abbiamo
vinto”. Grazie Pietro.
La staffetta 4x100: in alto Damato e De Fidio, in basso
Martucci e Mennea
Luigi Damato (Ottobre 2013)