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MONS. GIUSEPPE D’AMATO A VENT’ANNI DALLA MORTE
(anche se resterà sempre nel nostro cuore e nella nostra memoria come don Peppuccio)


Vogliamo fare memoria di Mons. Giuseppe D’Amato nel ventesimo anniversario del suo beato transito e del Cavaliere Damiano Daddato nel Trigesimo della morte in un’unica commemorazione.
E non poteva avvenire diversamente! Perché il cuore di questi due nostri illustri concittadini - possiamo affermarlo senza ombra di enfatizzazione - batteva all’unisono quando si trattava di mettere in rilievo le glorie e le bellezze della nostra città. L’uno manifestando le qualità di mente e l’entusiasmo di chi non smette mai di meravigliarsi, l’altro facendo scattare la generosità di cuore e la spontaneità del nostro popolo.
Mons. commendatore Giuseppe D’Amato nacque da nobile famiglia il 14 settembre (dichiarato l’8 dicembre) 1886, primo di nove figli. Ordinato sacerdote il 31 luglio 1910 svolse il suo fecondo apostolato come Rettore della chiesa di Santa Chiara, (Corso Cavour), del Real Monte di Pietà, come viceparroco della Cattedrale e di S. Maria della Vittoria e per circa 60 anni, dal 1928 fino alla morte, in qualità di rettore di questa artistica Chiesa barocca di San Giovanni di Dio. Come membro del Capitolo Cattedrale, ricoprì tutte le Dignità, non ultima quella di Arciprete. Fu anche oratore sacro, ricercato in diocesi e fuori.
Don Peppuccio - come familiarmente chiamato - ebbe a che fare con le massime autorità civili e religiose, ma altrettanta amabilità, senza parzialità, usò nei confronti degli umili, facendosi loro difensore. Infatti, con l’inseparabile borsa, piena anche di appunti riguardanti i casi della povera gente, lo si vedeva al Comune, alla Provincia, alla Regione, ai diversi Ministeri, o in altri ambienti competenti, per andare incontro a tutti coloro che fiduciosamente si rivolgevano a lui.
Chi lo ha conosciuto non lo ricorda mai stanco, piuttosto sempre in movimento come torrente in piena, soccorritore degli indifesi, suscitatore di emozioni e trascinatore di folle, capace di trasmettere quei valori cui fortemente egli credeva. Non c’è da meravigliarsi se nei suoi 74 anni di sacerdozio è stato capace di formare generazioni di onesti cittadini e di suscitare tante vocazioni sacerdotali e religiose. Io stesso mi sento altamente onorato nell’annoverarmi tra i suoi discepoli. Adolescente, ne spiavo i tratti, il suo modo di essere e di fare: tutto mi affascinava di lui, specie il suo ideale vocazionale, e feci bene a seguire il mio maestro e guida.
Ma ciò che più lo ha reso noto è stato il dispendio di energie e di tempo spesi a favore della cultura, della storia e dell’archeologia: “La popolarità gli è rivenuta dal suo attaccamento a Barletta trasformatosi poi in passione di storico locale, in cerca avidissima di quanto potesse essere preservato dall’ingiuria del tempo, dall’incuria e dalla dimenticanza”. Questa affermazione, riportata nel necrologio ufficiale dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, ci ha delineato in poche battute questa specificità del nostro sacerdote.
Fu proprio la travolgente passione per la sua Barletta e la sua storia che lo spinsero a scrivere ben otto volumi, quattro dei quali sulla Disfida di Barletta e sulla sua rivalutazione storica. Ed è soprattutto in merito a questo argomento che brevemente voglio soffermarmi. Possiamo, con cognizione di causa, affermare che il legame tra mons. Giuseppe D’Amato e gli avvenimenti del 1503 sia di fattore “genetico”, per il fatto stesso che egli nacque nel celebre palazzo - proprietà di famiglia - in cui a piano terra è incastonata la “Cantina della Disfida”. Questa vicenda di storia locale lo aveva affascinato da sempre, in quanto vide in essa la “prima affermazione di italianità offesa - com’ebbe egli stesso a scrivere - in un periodo di servaggio e sublime affermazione di religiosità”.
Per questo, nel pieno della maturità degli anni, nel novembre 1931 già lo vediamo tra i più ferventi promotori della ribellione, per l’ingiusta scelta del capoluogo di Bari a sede del Monumento Nazionale della Disfida. E non ci meravigliamo se per questa giusta causa, grazie alla sua volontà indomita, continuò caparbiamente a lottare tanto che, finalmente, alla veneranda età di 94 anni, riuscì a far eternare nel bronzo quello che dal 1867 era rimasto bozzetto in gesso, dello scultore romano Achille Stocchi, raffigurante Ettore Fieramosca nell’atto di abbattere Guy De La Motte. Il monumento fu inaugurato il 9 marzo 1980.
Sempre in virtù di quella passione di “custode” delle antiche testimonianze (si pensi alla scoperta del busto di Federico II di Svevia e del preistorico monolite Menhir di Canne della Battaglia, agli oltre cento pezzi di valore storico e artistico da lui consegnati al Museo-Pinacoteca Comunale di Barletta, al ripristino nel 1913 della trecentesca chiesa campestre del SS. Crocifisso e alla realizzazione della preziosa urna d’argento che dal 1929 al 1997 ha custodito il corpo del vescovo San Ruggero) rivalutò l’avvenimento della Disfida, oltre che dal punto di vista documentale, anche da quello folkoristico, come rappresentazione e rievocazione annuale. La prima edizione si ebbe nei giorni 12-13 e 14 febbraio del 1965, a cura del Comitato “Madonna della Disfida”, i cui animatori furono, appunto, il presidente, cav. Damiano Daddato, scomparso lo scorso 19 dicembre, e il suo ispiratore, nonché consulente storico, il nostro mons. D’Amato. “La celebrazione, come annunziata, venne effettuata con esattezza e con serietà. Non si esagera: giudizio laudativo generale, entusiasmo generale, meraviglia per tutti. Certo di tanto non si aspettava, data l’iniziativa da un modesto Comitato di operai e la scarsità di mezzi”. Fu il commento dello stesso mons. D’Amato ai risultati di quello storico evento.
Tra le righe di questo breve ma intenso commento possiamo leggere tutta la stima e la riconoscenza che don Peppuccio portava per il suo carissimo Damiano, con il quale affrontò i più disagiati viaggi, percorrendo in lungo e largo l’Italia per raggiungere tutte le città di appartenenza dei tredici cavalieri della Disfida. Chi non ricorda, se non altro per memoria storica, la passione con cui furono organizzate le prime Rievocazioni di quell’evento che ha reso Barletta famosa? Ad ogni richiesta dei nostri due popolari concittadini si spalancava ogni casa: nessuno negò la disponibilità.
Di fatto mons. Giuseppe D’Amato scegliendo il cavalier Daddato a suo inseparabile collaboratore ha contribuito a renderlo più famoso e, per questo, più amato da parte della cittadinanza. E di questo Damiano ne era ben consapevole, tanto è vero che, per immutata gratitudine e sincero affetto, nel 1985, a poco più di un anno dalla scomparsa del nostro Sacerdote, riuscì a realizzare un artistico monumento in sua memoria, concittadini plaudenti.
Il passo scritturistico del Siracide esorta: “Facciamo l’elogio degli uomini illustri… Essi furono uomini virtuosi, i cui meriti non furono dimenticati” (Sir 44, 1.10). È questo il significato principale del nostro fare memoria oggi: tramandare alle giovani generazioni gli esempi più belli e più genuini della nostra gente perché si lascino contagiare nella costruzione del futuro. Questo è ciò che conta e ciò che resta: il bene fatto. Tutto il resto è solo inutile affanno e vanità.

don Sabino Lattanzio

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