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Eventi di Marco Grassi

 


Dopo tre lustri, ritorno alla democrazia?

Dopo quindici anni, finalmente, con l’ultimo confronto Alfarano-Cascella, si riaffaccia la prospettiva per Barletta di un governo democratico della città. È vero che la legge Bassanini (L. 59/1997), conferendo maggiori poteri al primo cittadino, soprattutto legando la sua caduta allo scioglimento dell’intero Consiglio Comunale, era finalizzata a dissuadere le future coalizioni dal provocare crisi pressoché annuali, ma è altresì vero che i primi due sindaci ai quali fu affidata la conduzione dell’esecutivo - Salerno e Maffei - non sempre utilizzarono quel potente bonus dissuasivo della instabilità governativa, a beneficio di una conduzione democratica del governo locale.
Cominciando dall’amministrazione Salerno. Reduce da una endemica ingovernabilità, la precarietà dei governi cittadini si era accentuata soprattutto negli ultimi anni (dalla giunta Messina a quella Dimiccoli del 1996, se ne erano alternate sedici in vent’anni). Era la terza giunta, quella Salerno, generata dalla nuova legge, dopo quelle Fiore e Dimiccoli, ma questa volta sarebbe durata per tutto il mandato elettorale, e anzi ne avrebbe ottenuto un secondo, interrotto solo dalle dimissioni del sindaco. È vero che il capo dell’esecutivo si farà aiutare dalla nuova legge elettorale, attributiva di maggiori prerogative, ma il mantenimento del suo esecutivo non fu sempre conseguenza della democratica accettazione del suo indirizzo politico, fu anche conseguenza del suo carattere, decisionista e al tempo stesso insofferente delle opposizioni, talvolta ostile anche alla sua stessa maggioranza, quando era di intralcio alla realizzazione dei suoi propositi. Ma del resto bisogna dargli atto che riuscì a portare a compimento un gran numero di obiettivi. Per altri fu involontariamente aiutato dalle circostanze, come nel caso del V Centenario della Disfida che andò a cadere nel corso del suo mandato amministrativo, o come l’assegnazione alla città delle due medaglie d’Oro al merito civile e al valore militare.
Agevolato dalla continuità dell’azione amministrativa e dai maggiori poteri che gli rinvenivano dalla legge nella scelta del suo staff dirigenziale, favorito dal suo carattere determinato, il sindaco diede mano alla realizzazione dei suoi obiettivi programmatici. Ne realizzerà alcuni, ne imposterà altri, il conseguimento di altri ancora sarà impedito o limitato dalle oggettive difficoltà esterne alla sua volontà. Ma a distanza di anni, non si può negare che nell’ottica di una oggettiva valutazione delle sue metodiche di governo, Salerno abbia bruscamente ridimensionato le prerogative dei suoi organismi più rappresentativi (come giunta e partiti), attenuando altresì l’attenzione verso l’associazionismo rappresentativo di base, cioè del popolo, ovvero dei suoi “sudditi”. Non per nulla Rino Daloiso, in un suo circostanziato articolo di fondo, ne tratteggiò il profilo politico titolando il suo pezzo con la breve incisiva locuzione di “Re Francesco”, auspicando che non prevalicasse i limiti concessi dalle moderne democrazie ai sovrani a responsabilità limitata.
Certo, “Re Francesco” di cose ne realizzò e parecchie, ma a modo suo, progettando e realizzando gli obiettivi che più gli stavano a cuore. Non per nulla le sue amministrazioni registrarono l’alternarsi di 54 assessori tenuti in scarsa considerazione (nessuno ha lasciato traccia di sé), a beneficio del potenziamento della classe dirigente che aveva con lui un rapporto preferenziale. Insomma ottimi risultati, peraltro confermati dalla incondizionata stima di cui Salerno continua a godere ancora oggi presso il grande elettorato cittadino. E tuttavia pagando il prezzo del ridimensionamento delle prerogative della base più rappresentativa dell’opinione pubblica, così come nella interruzione di ogni forma di coinvolgimento all’assunzione di responsabilità da parte degli organismi preposti al rispetto di un metodo democratico di governo: penso innanzitutto ai partiti, agli assessori, allo stesso presidente dell’assemblea, alle commissioni consiliari.

Né le cose, purtroppo, cambiarono granché sotto il nuovo sindaco che - mutuando dal predecessore prerogative di comando verticistico - non ne attenuò l’impatto negativo compensandolo con il mancato consolatorio controbilanciamento di una conduzione più efficiente e realizzativa. E dove Salerno in un’opera pubblica (mettiamo la 167) verticizzava ogni direttiva, in modi spicci e sbrigativi, ma operativi e concludenti, Maffei non ne raggiunse gli obiettivi, dilazionandone la fattibilità, perché mentre accentrava su di sé ogni decisione, anche la più modesta, al tempo stesso però finì col restare impigliato nell’immobilismo determinato dal suo stesso isolamento, che portò la sua amministrazione ad una lenta, inesorabile agonia autodistruttiva. La colpa? Sempre degli altri naturalmente, senza alcun tentativo di un proprio esame di coscienza, e personalmente comincerei dal proposito di trarre un consuntivo al mio operato.
Mi spiacerebbe se venisse a qualcuno il sospetto che io volessi infierire. In realtà le mie riflessioni sono innanzitutto propositive perché mirano più al futuro che al passato, e cioè all’auspicio che torni finalmente la democrazia a palazzo di città, e che ci sia consentito immaginare un sindaco democratico, che cominci col responsabilizzare gli assessori e restituire dignità di rappresentanza alle prerogative dei partiti. È un luogo comune affermare che il loro ruolo si sia fortemente ridimensionato e che essi non esercitino più sull’esecutivo quel controllo di indirizzo e di verifica tipica - un tempo - di queste strutture democratiche. È piuttosto vero che ad accelerarne la crisi siano stati proprio i sindaci che ne hanno progressivamente ridimensionato il ruolo, non comprendendo che la vera forza, alla tenuta della loro gestione, sarebbe potuta venire proprio dal loro sostegno.
Auspichiamo finalmente il ritorno di un sindaco che porga l’orecchio alle istanze dei cittadini e se ne faccia interprete attraverso le associazioni di riferimento (a Barletta se ne contano tantissime, alcune di grande operosa tradizione); un sindaco che ripristini l’attenzione dell’esecutivo sulle tematiche di maggiore impatto sul futuro della città: penso all’urbanistica estinta, alle finanze e alla programmazione, ai lavori pubblici e alle grandi opere infrastrutturali, nonché al rilancio della cultura come risorsa economica ed occupazionale.
Immagino un sindaco che scelga assessori competenti e capaci, non di quelli con nomi altisonanti, ma astratti e inconcludenti, ma che siano concreti e operativi, che sappiano raccordarsi coi loro rispettivi dirigenti; un sindaco che si doti di un piano-planning di quelli che hanno alle spalle delle loro scrivanie i grandi manager (perché gestire un comune è come gestire la più grande azienda della città), per segnare modalità, tempi e risorse nell’attuazione del programma nonché priorità nella soluzione dei loro problemi cittadini (magari cominciando dallo scandalo di via dei Muratori!)… È chiedere troppo?
La città è un insieme di tante cose, racconta Italo Calvino, un idealista senza illusioni. È un coacervo di problemi materiali, specialmente di questi tempi legati alle nostre stesse prospettive di sopravvivenza. Ma la città è anche luogo di memorie da preservare, di parole da scambiare, di idee da confrontare, di proposte da formulare, di aspettative… sì, di aspettative per così lungo tempo attese e poi represse, per rimediare - meglio tardi che mai - ai danni di una gestione troppo disinvolta che ha provocato opere pubbliche incomplete, finanziamenti perduti, disordine urbanistico. Per non dire della cultura, programmata e gestita non come valorizzazione delle nostre più gratificanti risorse, ma come espressione della più assoluta discrezionalità con esiti discutibili e largamente contestati.

Operativa ed efficiente, dinamica e produttiva, che non sia finalmente giunto il momento del ritorno della democrazia a Palazzo?

Renato Russo
(8 giugno 2013)

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