UNA RILETTURA DELLA STATUA DI FEDERICO II
Una risposta a chi non l'attribuisce al grande imperatore
Recentemente il giornalista ligure Marco Brando ha pubblicato
un libro sulla figura di Federico II, dove il personaggio è stato negativamente ridimensionato e noi, i Pugliesi, siamo
stati accusati al limite del dileggio, di esserci infatuati del mito
federiciano, da noi stessi inventato, per sopperire alla mancanza di
una nostra identità storica e nazionale.
In risposta al volume di Brando, Renato Russo, sempre vigile
a ciò che accade in libreria, ha pubblicato un volumetto “Pugliesi
- Tutti Pazzi Per Federico - Ed Rotas 2009” in difesa del Sovrano
e dei Pugliesi, per ricordarne gli indiscutibili meriti e per ribadire
pacatamente che, proprio a cominciare da Federico II, l’Italia Meridionale
conobbe la sua unità nazionale e fu un Regno, il suo, precursore
di quelli moderni, basato su leggi d’avanguardia, organizzato
socialmente, culturalmente, anche se un po’ troppo fiscale al fine di
provvedere, nei limiti di quei tempi, al benessere dei cittadini.
Ma anche nello stato moderno, il mezzogiorno d’Italia ritrova
la sua identità nei generosi contributi di sangue e di cultura che i
suoi figli sempre diedero alla Patria.
I liberi Comuni del nord, invece, furono afflitti da lotte e contrasti
interni e, ad onor del vero, combatterono contro l’imperialismo
svevo e di là l’atavica antipatia per il Barbarossa e i suoi
discendenti.
Ma, circa le accuse di essere degli esaltati, dobbiamo arguire
che il giornalista Brando non conosce la Puglia con la sua millenaria
civiltà, da cui i Pugliesi traggono la loro prestigiosa identità,
un’identità che affonda le radici nella Preistoria, nella civiltà neolitica
e nella dimensione culturale Apula, le cui preziose testimonianze,
fanno sfoggio nei musei di tutto il mondo.
E non solo… perché la nostra identità sta proprio nei castelli
normanno-svevi, nelle cattedrali e in ogni pietra di questa generosa
e ferace terra di Puglia.
E allora, se il Brando non è in malafede, dobbiamo ritenere
che il suo ironico dileggiare e le sue insinuazioni offensive sono
gratuite.
Purtroppo, quello che tocca più da vicino la città di Barletta è
la sentenziosa e arrogante presunzione di definire non pertinente a
Federico II il busto che si conserva nel nostro castello.
Non si possono cancellare le testimonianze del passato con la
facile negazione e l’ironia.
Mentre non riteniamo degne di risposta le facezie degli autori,
riteniamo opportuno ricordare che, nel clima democratico in cui
viviamo, aperto al dialogo e alla comprensione, chiunque può esercitare
il suo diritto di critica, ma se qualcuno ritiene non autentica
la scultura federiciana, ce ne deve illustrare i motivi o in alternativa
dirci a chi appartiene quella enigmatica pietra.
E allora, fino a prove contrarie, la scultura rimarrà sempre
come il busto di Federico II, custodito nel castello di Barletta, ammirato,
fotografato e contemplato da migliaia di visitatori italiani
e stranieri. Tanto che a sostegno di questo convincimento ci sono
almeno cento pubblicazioni dei più illustri biografi di Federico II,
compresa quella recente della Treccani!
Non entro in merito al rabuffo circa la controversa figura
dell’Imperatore con le sue luci
e le sue ombre, perché l’Autore
barlettano Renato Russo, con la
succitata pubblicazione, ne ha
già dato egregio riscontro ai detrattori,
ma da parte mia sento il
dovere di ripercorrere a ritroso le tracce che, scientificamente, convaliderebbero
l’autenticità del nostro busto, dopo un attento esame
della statua posta sotto i riflettori di diverse discipline scientifiche
come le arti figurative, il ritratto e la scultura, la statuaria romana
e medievale ecc…
Cominciamo con lo stile: i capelli lunghi arricciati sulla nuca
secondo la moda del XIII sec, e l’atteggiamento sono elementi di
contrasto con la semplicità delle capigliature romane, così come
il forte realismo espressivo, ci portano ad escludere la pertinenza
del manufatto al “romano aulico, a quello tardo antico” e alla vasta
congerie delle sculture funerarie (V. Arti fi gurative, romano, ritratto
e scultura) e pertanto la statua assume la dignità di una pregevole
scultura estetica pre-rinascimentale, dove i tratti fisionomici
sono accuratamente delineati (V. ritratto e scultura: medioevo).
Tutte le statue antiche, quasi mai recano il nome del personaggio,
perciò il metodo d’identificazione si basa soprattutto sui riscontri
con le immagini monetali (V. ritratto e scultura).
E su questo riscontro, congiuntamente alle conoscenze storiche,
come già è stato fatto da tanti studiosi, basiamo la prima
prova, tenendo presente la norma che “Dalle monete, come termini di raffronto con le sculture, si dovranno analizzare, più che
l’immagine fisionomica, quasi mai affidabile, gli atteggiamenti, e
il paludamento del personaggio”. E nell’ambito di questa metodologia
riconfrontiamo la nostra scultura con l’Augustale d’oro, la
moneta coniata a Brindisi nel sec XIII, l’unica in cui Federico II
appare nelle vesti di Imperatore dei Romani (moneta e medaglia:
medioevo).
L’arte del Medioevo ha come tema fondamentale l’immagine
sacra e poi quella funeraria specialmente del defunto a figura intera
steso sul baldacchino.
Le rappresentazioni dei viventi sono generalmente riservate a
Principi e Imperatori o ed Ecclesiasti e l’immagine incisa sui sigilli
e sulle le monete si riallaccia alle tradizioni del mondo antico: per
esempio Carlo Magno si serve nei suoi sigilli dell’effigie di Costantino.
Anche i monumenti si rifanno alla tradizione ellenistico-romana
dell’Imperatore divinizzato. A volte l’immagine del sovrano è collocata alle porte della città, come l’Imperatore Federico II
a Capua assiso in trono e affiancato dai suoi ministri ritratti in busti
di maniera romana (Kurt Bauch: - Ritratto - Medioevo).
Ma la chiave d’identificazione del personaggio starebbe nell’epigrafe
alla base della statua, i cui caratteri non sono romani,
e più precisamente in quella specie di crittogramma, consistente
nelle tre lettere scheggiate, interposte tra l’attributo Divi (dal latino
caso genitivo con il significato di/del Divino) e la parola Caesar
(Caso nominativo, come d’uso, = Cesare).
Le tre lettere interposte cominciano con una M, parzialmente
cancellata, ma chiaramente intuibile e finiscono con una I che concorda,
con l’attributo Divi e perciò lasciano intravedere che si tratta
anche essa di un genitivo in riferimento ad un altro attributo scritto
in forma contratta, che completerebbe la legenda nel seguente senso:
DIVI MXMI CAESAR ossia (statua o immagine) DEL DIVINO
MASSIMO CESARE,
il più grande, divino Imperatore (più grande dello stesso Giulio Cesare) come si appellò Federico II di
Svevia.
D I V I M.........I CAESAR
La prova decisiva sulla pertinenza della statua a Federico II,
ci viene nientedimeno dal Metropolitan Museum of Arts di New
York, dove si conserva un altro busto proveniente dalla masseria
fortificata Fasoli. Questo mostra una pietra, uno stile e un’epigrafe
simili alla nostra scultura di Federico II, però rappresenta Giulio
Cesare, come è scritto alla base cioè DIVI IULI CAESAR.
Circa la datazione dobbiamo dissipare il dubbio che la scultura
federiciana, insieme all’altra, possano essere neoclassiche, e
qui ci soccorre la conoscenza dell’arte scultorea rinascimentale
e moderna, l’analisi della pietra, la litotecnica e il contrasto con
l’architettura del luogo dove fu trovata che strutturalmente rientra
nella tipologia delle masserie fortificate di Puglia. Secondo la
usuale tecnica di lavorazione, la statua è stata tratta da un blocco di pietra locale, prima sbozzato a martello e poi disegnato a scalpello,
rifinito con uno strumento puntiforme (bulino) e infine levigato.
Si nota una differenza di fattura, con le statue più antiche o più
recenti, perchè questa, pur essendo “a tutto tondo”, reca posteriormente
una cavità, che forse doveva servire per incastonare il busto
in qualche supporto architettonico, forse una colonna.
Ritornando alla masseria fortificata dove fu trovata, abbiamo
fatto ricerche sul detrito archeologico sparso in superficie e abbiamo
potuto riscontrare qualche frammento di ceramica nera romana,
frammenti fittili striati di tettoie di epoca imperiale, frammenti
di ceramica acroma e d’impasto alto medievale ed anche invetriata:
tutti questi indizi rivelano la continuità di frequentazione della
masseria; sul terreno del parco si notano tracce di più antiche strutture
architettoniche come frammenti decorativi di capitelli (rocchetti),
pietre, tufi e lastre.
La statua, quando fu trovata, era collocata sopra l’arco su un
piedistallo appositamente costruito, lasciando intravedere che là
fosse in giacitura originaria da molti secoli, come dimostrerebbe
l’erosione eolica nella sopra citata intercapedine.
È probabile che la struttura abbia subito diversi rimaneggiamenti
e la statua sia stata collocata sopra l’arco della masseria
fortificata, come emblema di prestigio o come scrive Ernst Kantorowicz,
nella biografia “Kaiser Friedrich der zweite” (1926),
riferendosi alla porta di Capua: ... che Federico Secondo volesse
istillare nel popolo con la sua immagine, come già con la parola
delle leggi, l’orrore sacro dinanzi alla divina presenza dell’Imperatore,
grazie all’opera degli occhi - il cui vedere produce nell’uomo
maggiore impressione di quel che entra attraverso l’orecchio - viene
confermato dal cronista, il quale mostra di cogliere esattamente
l’effetto che Federico si proponeva: I versi minacciosi scolpiti
sopra la porta devono servire a timore del viandante e a timore di
quelli cui già le immagini lo predicarono.
È da ricordare che lo Svevo si occupò molto di agricoltura, e
creò molte regiae masseriae. Forse la masseria fortifi cata Fasoli
fu il “capolinea” di altri possedimenti Federiciani e perciò vi pose
come emblema di riconoscimento e di potenza la sua immagine.
Forse è solo una coincidenza, ma di masserie Fasoli ce ne sono
molte altre in agro di Andria, dove c’e anche una Torre Fasoli.
Questa antica famiglia, forse di origine romana, diffuse i suoi rami
anche ad Andria, dove ebbe molte proprietà di terreni e masserie;
essa tuttora esiste e si imparentò con gli Iannuzzi, eredi anche loro
di masserie, pervenutegli in buona parte nel 1700.
Giuseppe Savasta. (giugno 2009)
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