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Tracce di Ettore Fieramosca
Tra il Gargano e Valladolid

Abbiamo a Bari, nel quartiere Libertà, via Ettore Fieramosca e anche piazza Disfida di Barletta. Ma, diciamoci la verità: non molti sanno né dell’una né dell’altra. In compenso la mia generazione aveva nonni che sapevano tante cose - il più delle volte parto dell’immaginario popolare - sia dell’uno, Ettore Fieramosca, sia dell’altra, la Disfida.
Quando si concluse così la fiera tenzone, Ettore Fieramosca, l’eroe dell’epica giornata, spronò, secondo lo scrittore Massimo D’Azeglio, il suo stanco cavallo e s’allontanò dal campo di battaglia: e nessuno più lo vide, sempre secondo l’autore, “né vivo né morto”. Secondo le voci popolari pugliesi, il focoso cavaliere avviò il suo bel destriero  verso il Gargano. L’eroe, innamorato, della bellissima Ginevra, ebbe la sfortuna di vederla morire. Assistè, dolorosamente colpito, alle esequie: gli era vicino fra’ Mariano che invano cercò di consolarlo dal suo immenso dolore. Quando la dura terra coprì la sua amata e fra’ Mariano invocò Domineddio che quella pesante coltre fosse leggera per la bella amata dal cavaliere, Fieramosca inforcò il suo destriero e s’avviò per le aspre giogaie del Gargano.
Sempre la voce popolare raccontava che, in una notte di tormenta sulle montagne garganiche, alcuni contadini intenti a ricavare carbone bruciando le forti radici del terreno, videro apparire un cavaliere gigantesco che cavalcava un focoso destriero. Il suo mantello lo rendeva ancora più imponente perché la tempesta lo faceva volteggiare nell’aria scura: e i poveracci s’inginocchiarono. Pensarono che quel cavaliere fosse l’Arcangelo Michele che per tre volte apparve sul Gargano facendo tremare la terra. E poi non c’era da quelle parti il suo famoso santuario? Il cavaliere si fermò sul ciglio di un precipizio, guardò a lungo il baratro e il mare immenso che si apriva ai suoi piedi. Poi, con un  grido disumano, si lanciò nelle burrascose onde dell’Adriatico.
Anni e anni dopo, sotto quel dirupo furono ritrovati ferraglie corrose dall’acqua di mare, residui di ossa umane e lo scheletro di un cavallo. La gente si convinse ancora di più che quelli erano i resti del leggendario eroe della Disfida, lanciatosi nel mare amaro e profondo per un immane dolore d’amore. Quando il poeta Giovanni Pascoli, verso la fine del 1800, scese in treno dalla Romagna per raggiungere Matera, dove insegnò al liceo classico per un paio d’anni, vide - dal convoglio - le montagne lontane della Puglia. E fu certo d’intravedere - lo scrisse ai suoi - il monte dal quale Ettore Fieramosca s’era lanciato nel baratro con il focoso destriero.
Gli storici invece non solo non raccolsero la drammatica leggenda pugliese, ma riuscirono a ricostruire quel che fece il prode Ettore Fieramosca dopo quel fatidico 13 febbraio 15103. Secondo loro visse ancora per altri dodici anni. La morte difatti lo colse, per un volgare malanno, nell’anno di grazia 1515, per la cronaca il 20 gennaio, in terra iberica, nella città di Valladolid. Il fiero Fieramosca, come usava firmare nelle sue carte, era andato alla corte del re di Spagna per riappacificarsi con il re e sbrigare alcune sue faccende private.
Dopo la pace fra francesi e spagnoli, il baldo cavaliere era stato privato dei beni ricevuti a compenso per la sua opera di orgoglioso e intrepido mercenario. Gli avevano tolto la contea di Miglionico e la Rocca d’Evandro: in compenso gli avevano assegnato una congrua pensione vitalizia. Si sdegnò, il fiero Ettore, e si chiuse, corrucciato, in un suo castello, pronto ancora ad impugnare spada e lancia sul suo fido cavallo nel caso avessero deciso di privarlo anche di quel maniero. Nel 1515, eccolo in Spagna, pare riappacificato con la casa reale; ma ahimé se ne morì in quel di Valladolid. Non aveva ancora raggiunto il quarantesimo anno di vita, età ancora propizia per battaglie ed antiche prodezze.
Ma dove fu sepolto, nella terra iberica, il prode guerriero capuano? Gli storici si sono occupati dell’estrema dimora del personaggio, anche perché non era chiaro il luogo esatto dove fossero state inumate le sue spoglie: in una chiesa? in un isolato castello? in un luogo misterioso concesso dai re spagnoli? Si parlava, nei secoli scorsi, di una pietra tombale ricca di un epitaffio nel quale si commiserava la morte dell’eroe avvenuta non sul campo di battaglia ma in un bianco letto. E ricordavano, gli alati versi, anche le acque del Volturno che bagnano la sua terra natale. Nessuna notizia però sul luogo di questa pietra: una cattedrale, una cappella gentilizia, un antico palazzo? Nel 1844 un agostiniano ch’era in Puglia, Cosma Loiodice, autore fra l’altro di alcune strenne storiche coratine, ebbe l’idea di rivolgersi a un confratello del suo ordine, padre Tirso Lopez, illustre storico iberico, per tentare di avere notizie sull’oscuro tumulo.
Il frate spagnolo si dette da fare e comunicò ai confratelli pugliesi le condizioni degli avelli dei grandi uomini, specialmente quelli delle nostre terre, che morivano nella terra iberica. Scrisse il padre agostiniano: “Questi tutti gli italiani, come Cristoforo Colombo, si sotterravano nella chiesa di San Francesco o in quella del venerabile Ordine Terziario del medesimo santo”. Poi aggiunse che tutte quelle chiese e quei conventi erano scomparsi: sui loro resti erano state edificate nuove e superbe case. Una volta abbattuti i monumenti, non rimase alcun segno che indicasse come fossero già stati chiese e conventi, chissà anche con reliquie degne di gran rispetto.
E si persero tutte le speranze di trovar l’avello di Ettore Fieramosca, morto senza lasciar la traccia che qualche “urna dei forti” conservasse i suoi resti.

Vito Maurogiovanni
(febbraio 2008)

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