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La Battaglia di Canne
Guida alla cittadella di Canne della Battaglia
Canne 216 a.C. The greatest battle of antiquity
La Battaglia di Canne e la campagna annibalica in Puglia nel contesto della seconda guerra punica
 

 CANNE

“ANNIBALE ALLE PORTE” DI ROMA
DOPO LA TRAVOLGENTE VITTORIA DI CANNE

Già dopo la travolgente vittoria di Canne, nell’estate del 216, ad Annibale era balenata l’idea di azzardare una fulminea spedizione su Roma, ma pur contro il parere dei suoi generali, a più miti consigli ce l’aveva portato la riflessione ch’era un azzardo troppo temerario, l’attraversamento di città in larga parte ancora federate con Roma e ostili allo spietato aggressore punico.
Ma ora, nella primavera del 212, reduce dalla brillante conquista di Taranto che gli aveva aperto le porte di molte città pugliesi, ora ch’era tornato all’assedio di Capua per tentare di liberarla dal giogo romano, il cartaginese ebbe un’illuminazione improvvisa.
Anziché tornarsene in Puglia, dove logorarsi in una sterile attesa, presentarsi sotto le porte di Roma. Un’impresa ardua, se gli fosse riuscita, tanto inconcepibile, nella sua spavalda temerarietà, da restare incancellabile nel ricordo di tutte le guerre di ogni epoca. Dopo la folgorante intuizione di un attimo, passò freddamente ad esaminare i dettagli operativi, perché nulla era in lui lasciato all’improvvisazione, ma anche il rischio più azzardato, era frutto di un lucido calcolo.
Riteneva infatti, Annibale, in questo modo, di stornare l’attenzione dei Romani dall’assedio di Capua, di seminare al tempo stesso il terrore proprio nel cuore della grande nemica, nell’immaginifico ma non impossibile tentativo di sconvolgere comunque i giochi del destino, rimettendo in corsa il treno della storia, a quel punto degli avvenimenti a lui ostile, nella sua inesorabile stagnante ineluttabilità.
Lasciò notte tempo gli accampamenti del Tifata, diretto prima a Venafro, a Cassino e infine - dopo aver saccheggiato il Prenestino - sulla Latina, alla volta di Roma, dove sapeva che la città era tenuta da una legione, per giunta in via di formazione. Preceduto dalla paura, dinanzi a sé trovava solo il vuoto.
Dovette balenare, nella sua mente inquieta, spasmodica la voglia di ribaltare, con la forza della volontà disperata, l’arido calcolo dei numeri e delle probabilità. E se a Roma non ci avessero creduto fino in fondo, come tutto, finora, faceva magnificamente presagire? Era una partita a scacchi a due, fra lui e Quinto Fabio Massimo, il Temporeggiatore che dallo scranno più alto del Senato, ancora una volta non perse la sua abituale composta flemmatica calma, finendo con l’imporre la sua linea ispirata (nemmeno a dirlo) a prudenti attese, convincendo i suoi preoccupati colleghi che si trattava solo di un’azione diversiva per sguarnire Capua, di una temeraria provocazione, di fronte alla quale non bisognava farsi prendere dal panico, ma mantenere i nervi saldi e l’intelligenza vigile.
Il corso degli eventi correva sul filo del tempo, l’implacabile incertezza della vittoria più esaltante, come della disfatta più avvilente.
Il tempo, per l’ardito generale, erano quei pochi giorni di cui aveva bisogno per sfidare il destino, impossibile ribaltamento del corso logico e prevedibile della guerra, più ancora, della storia stessa.
Era un bel dire di mantenere la calma. Ma le notizie dei saccheggi e delle devastazioni vicine, astutamente alimentate da Annibale, con profanazione di templi e massacro di nemici, avevano gettato nella costernazione più cupa molti cittadini che come impazziti accorrevano sulle mura, alla improbabile volta di un nemico che si temeva ormai vicinissimo, e soprattutto le donne che, sempre più numerose, riempivano i templi per impetrare salvezza agli dèi, e sciamavano per le strade ossessive e disperate al grido di “Annibale alle porte”.
Soltanto allora, sotto la spinta di un’opinione pubblica terrorizzata, i generali che assediavano Capua furono presi dal dubbio che non si trattasse solo di un millantevole inganno e, rompendo ogni indugio, Fulvio Flacco si mise sulle sue tracce e qualche giorno dopo di lui, Appio Claudio mobilitò alla caccia l’esercito intero.
Dal vallo della Bufalotta, dove s’era accampato, non lontano dall’Aniene, a poco più di tre miglia da Roma, Annibale cominciò a fare scorrerie nei dintorni e una sera che s’era scatenato un diluvio, insieme a pochi compagni s’inoltrò sulla Salaria portandosi rapidamente fin sotto le mura dell’Urbe, nei pressi di Porta Collina, da dove, nel bagliore dei lampi notturni, improvvisi squarci di luce gli illuminavano l’odiata città, le sue possenti mura, e dietro il nebbioso schermo di una pioggia torrenziale, l’irreale profilo del palazzo più alto di tutti, il Palatino, e poco più giù il Viminale e il Quirinale e appena distinguibile, in lontananza, la bassa mole del mitico Campidoglio.
Per quanto fosse sempre lucido e imperturbabile, l’improvvisa vista della mitica odiata città, dovette esercitare nell’animo del Cartaginese un’intensa inesprimibile emozione, condensando in un attimo ricordi e turbamenti di un’intera esistenza, fin da quando, appena novenne, aveva giurato, al cospetto del padre, inestinguibile odio verso l’odiata nemica. Superato il momento emotivo, prevalse il lucido calcolo dello stratego che soppesò con impassibile distacco le difficoltà di un’impresa troppo azzardata, soprattutto ora che aveva valutato con freddezza la poderosa fortificazione: mura alte fino a 9 metri, dallo spessore di 4 metri, per una lunghezza di oltre 11 chilometri.
Erano misure esagerate anche per un generale temerario come lui. Capì in un istante che l’impresa era, oltre che impossibile, anche folle. Momenti di intensa riflessione in mezzo allo scrosciare della pioggia battente, con un misto di rabbia impotente e di rassegnata frustrazione, attimi rotti dal concitato schiamazzo che facevano le sentinelle dagli spalti del torrione di guardia, all’avvistamento di quel manipolo di cavalieri imprudenti che tardavano a dare la parola d’ordine per farsi aprire il grande portone d’ingresso.
Annibale arretrò di qualche passo, si fece consegnare da uno dei suoi uomini un giavellotto di cui ricoprì la punta con un bioccolo cui diede fuoco, e che lanciò con forza e con destrezza oltre le mura, tracciando nel cielo buio e tempestoso una scia di fuoco che l’impatto, sul terreno bagnato del “campo scellerato”, avrebbe spento un attimo dopo.
Era la sua sfida a Roma, la sua ultima sferzante provocazione, gesto certo simbolico, nella sua rabbiosa sterile impotenza, e di cui tuttavia, ancora dopo tanti secoli, continua a giungere fino a noi un’esile traccia luminosa, che nessuna pioggia, nessun diluvio riuscirà mai ad estinguere.

Renato Russo
(agosto 2016)

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